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Carlo A. Pelanda
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Carlo Pelanda: 2000-6-24Il Borghese

2000-6-24

24/6/2000

Chi ha paura delle nuove tecnologie

Da un paio d’anni inzio il mio corso di (eco)scenari globali presso la University of Georgia con la seguente battuta: non sappiamo ancora bene cosa sia la “New Economy”, ma siamo già sommersi da fesserie che profetizzano una catastrofe sociale futura per sua colpa. E ripeto la stessa battuta quando, nel proseguire del corso, tratto la parte relativa alla rivoluzione tecnologica in atto. Con la differenza che, in questo secondo caso, gli avvertimenti sui rischi futuri sono da prendere più sul serio. Per esempio, quando Bill Joy, direttore scientifico della Sun Microsystem e tra i fondatori del nuovo mondo Internet (linguaggio Java), scrive preoccupatissimo che c’è un serio rischio che la nostra specie sparisca entro il 2030 (si veda la rivista “Wired”  di aprile) allora a tutti, docente e discenti, viene un brivido, perché la persona è un ricercatore stimato. E le sue ipotesi vengono esaminate con cura. In particolare, che la nascente possibilità di manipolare la vita, combinata a quella di creare nuovi sistemi di intelligenza artificiale (vera e propria) a sua volta integrata con le nanotecnologie, generino nuovi sistemi biocibernetici che alla fine modificheranno, o perfino sostituiranno, la specie umana. E questo catastrofismo istruito è molto utile in quanto avverte che sarebbe meglio costruire in fretta istituzioni capaci di incanalare sia la rivoluzione biotecnologica  sia la transizione dall’ecologia naturale a quella artificiale entro argini che non le facciano né inaridire né straripare. E gli studenti si eccitano nel disegnarle sulla lavagna. C’è un problema, grazie a chi lo ha segnalato, lo si risolve. Appunto, ci sono casi dove il catastrofismo, se ragionato e motivato, diviene parte utilissima e stimolativa di un processo conoscitivo e creativo.

Ma in tanti altri casi è solo una perdita di tempo. Sono quelli dove l’autore piega o distorce eccessivamente la realtà per dimostrare una tesi ideologica precostituita. E molta letteratura che critica la globalizzazione, la Internet economy e, in generale, la nuova economia trainata dalla tecnologia, cade in tale disdicevole prassi. Poi c’è un altro gruppo di autori che compie un errore più metodologico che ideologico. Quello di selezionare alcuni dati provvisori e farne base per uno scenario generale futuro. Critico, prima, quello più innocente, ma non più innocuo, di derivare scenari generali da analisi solo parziali e provvisorie. Per esempio, fino alla fine del 1998 i dati segnalavano che Internet stava diventando (in America) un grande “disintermediatore”. Lo scenario di allora faceva temere la fine dei negozi tradizionali, e la fine di quei posti di lavoro, perché sostituiti dal commercio elettronico. Neanche un anno dopo, quando lo sviluppo dello e-commerce è diventato più maturo e consolidato, si è visto, invece, che lo scenario più probabile diventava quello dell’integrazione tra luogo fisico di scambio e rete. E sta perdendo probabilità quello che prevedeva la sostituzione totale e traumatica del primo da parte della seconda. Il lavoro in tale area  aumenterà e non si ridurrà come, al contrario, frettolosi catastrofisti avevano assicurato. Altro esempio. Nella prima parte degli anni ’90 si temeva che l’economia liberalizzata statunitense, con minori garanzie protezioniste di quella europea continentale, avrebbe prodotto una spaccatura sociale, i ricchi più ricchi e i poveri sempre più poveri. Invece è successo il contrario. L’economia liberalizzata ha incentivato nuovi investimenti amplificati dall’emergere delle nuove tecnologie. Tale combinazione ha generato nuova occupazione per decine di milioni di persone. Soprattutto, i salari medi degli occupati sono aumentati mentre in molti temevano che un’economia ferocemente selettiva e concorrenziale li avrebbe fatti diminuire. Invece la tecnologia ha creato nuovi spazi di mercato che hanno aumentato la domanda di lavoro fino al punto di renderlo merce rara e “coccolata”. E adesso le imprese, siano esse catene alberghiere o produttori di software, dedicano molte più risorse alla formazione continua del personale. E così è migliorata anche l’istruzione media, più di quanto lo stato della istituzioni scolastiche lasciasse sperare. Belle sorprese che si stanno replicando in parti del mondo diverse dall’America, anche se nell’Europa ancora socialisteggiante con più lentezza. Buone novità si notano anche nello scenario generale della globalizzazione. In pochi anni almeno tre miliardi di persone, nel pianeta, sono diventati nuovi produttori e consumatori. Non si sa ancora se abbiano migliorato la qualità della loro vita. Ma certamente sono più ricchi di quando i loro paesi erano classificati “Terzo mondo” (in buona parte comunista). Un altro mito catastrofista che si è rivelato sbagliato è quello che considera l’economia mondiale come una vasca con una quantità di acqua (la ricchezza) fissa. Se io ne ho di più tu ne hai di meno. In realtà l’acqua, grazie alla globalizzazione, sta aumentando e sembra che ce ne sarà per tutti. Ce lo diceva la teoria classica del commercio internazionale già nel 1800 e siamo lieti che resti ancora confermata. Diversamente, le profezie catastrofiche di Marx sull’avvento di un capitalismo concentrato in poche mani, tutto il resto povero ed affamato, sono state smentite dai fatti. E continuano ad esserlo nel presente e nel futuro ravvicinato. Quindi chi cerca di riproporle è troppo distante dalla realtà misurabile per pretendere di essere credibile. Comunque non si lamenti chi è oggetto di questa critica. I libri catastrofici vendono più copie di quelli maggiormente equilibrati e razionali. Questo forse è il succo della questione. 

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