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Carlo A. Pelanda
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Carlo Pelanda: 2004-7-24il Giornale

2004-7-24

24/7/2004

Il dilemma del riformatore

Sta tornando il sereno all’interno della Casa della libertà. Quindi è un buon momento per analizzarne le recenti turbolenze da un’angolatura poco trattata nelle cronache. La perdita temporanea di coesione non è stata solo causata da fenomeni “politichesi”. Questi, infatti, sono scoppiati in forma di disordine e frammentazione polemica come conseguenza di un problema sistemico e di motivi più nobili: le forze della coalizione si sono trovate di fronte al “dilemma del riformatore” e, in questo primo tentativo di cambiare il Paese, non sono riuscite a risolverlo, scomponendosi. Capire questo punto aiuterà a far meglio nel secondo.

Cosa è il “dilemma del riformatore”? Se cambio troppo e troppo velocemente rischio di perdere il consenso e quindi di non poter più governare, ma se non  cambio in misura e tempi adeguati il sistema mi va a pezzi. Ci sono due tipiche soluzioni: (a) non fare nulla e, nel migliore dei casi, tentare solo di rallentare il declino; (b) trovare un giusto mix tra requisiti di mutamento e minimizzazione dei loro impatti. La prima opzione è quella offerta dalla sinistra e si commenta da sola oltre a spiegare perché il termine “conservatore” descrive oggi la sinistra stessa e non più la destra liberalizzante. La seconda è alla base del contratto elettorale che ha vinto nel 2001: il sistema va modernizzato e detassato in quantità sostanziali, nonché riconfigurato a favore di una maggiore capacità di autogoverno locale, ma senza ridurre garanzie essenziali ed evitando di mutare in tempi troppo brevi consuetudini radicate, danneggiando chi vive grazie a queste. Infatti si può dire che, sulla carta, il programma elettorale della Casa è un ottimo esempio di buon bilanciamento tra efficienza e protezione, ambedue in quantità sufficienti sia per rilanciare l’Italia sia per non sommergere la missione riformatrice sotto ondate di dissenso. Ma non ha funzionato nel primo tentativo di applicarlo. Perché? Alcuni dicono che il contratto si è rivelato inapplicabile e troppo sbilanciato sul lato del liberalismo contro il garantismo economico. E, all’interno della coalizione, propongono di modificarlo in senso più “sociale”, più “concertativo”, più, in sintesi, annacquato. Un’altra analisi, invece, mostra che il piano iniziale era proprio ben bilanciato e che può ancora funzionare, ma che alcune condizioni di contorno non lo hanno favorito. In particolare, il ciclo economico sfavorevole tra il 2001 ed il 2003 ha reso difficile detassare senza sfondare i limiti di deficit imposti dal Patto di stabilità. L’idea di violarlo, poi, è stata contrastata dal rischio di veder declassare la fiducia sulla solvibilità dell’Italia in relazione al suo enorme debito pubblico. E per questo la detassazione è diventata possibile solo ipotizzando di tagliare più spesa assistenziale di quanto inizialmente previsto, allarmando i protezionisti e mettendoli di traverso all’impegno riformatore di Berlusconi perché gli interessi da loro rappresentati erano percepiti a rischio. Da qui, poi, il trambusto politichese. Ma, appunto, nel momento che questo rientra va veramente ribilanciato sul “sociale” il contratto riformatore originario oppure il mutamento favorevole di alcune condizioni esterne potrà mantenerlo? Due fatti consigliano la seconda scelta. Primo, il ciclo economico globale sta inducendo più crescita interna in Italia e quindi migliorando tutte le cifre in “rapporto al Pil”. Secondo: avendo fatto un taglio molto serio e doloroso alla spesa per dimostrare la volontà di stare dentro i parametri europei, penso che un loro sfondamento minimo e provvisorio motivato dalle esigenze tecniche di detassazione potrebbe essere negoziato e trovare consenso in sede di Ecofin, nonché ben valutato dalle agenzie che valutano il nostro debito e definiscono il prezzo dei titoli relativi (che se sale, in effetti, aumenta i costi statali). Perché una cosa è violare gli europarametri a causa dell’incapacità di fare riforme e, qualitativamente, un’altra il farlo temporaneamente per dare più crescita economica ad un sistema con un buon esito probabile dopo due anni. Il primo è, in effetti, un buco destabilizzante che aumenta il debito pubblico, ma il secondo ha la natura di “investimento” e come tale dovrebbe essere trattato. Inoltre, riguardo al debito, la dottrina valutativa standard  guarda più alla sua crescita o decrescita che non all’ammontare. Questo, per altro, è inferiore al patrimonio pubblico (calcoli fatti da Siniscalco) e quindi l’Italia, pur indebitata paurosamente, è un Paese con saldo patrimoniale positivo, quindi ben stabile. Basterebbe privatizzare qualche bene pubblico in più per stare dentro il sentiero di riduzione del debito e mettere questa misura a sostegno ulteriore della richiesta di flessibilità temporanea del Patto per la nostra detassazione. Che quindi potrebbe essere accelerata e fornire prima l’effetto di rilancio economico. In conclusione, la soluzione al “dilemma del riformatore” potrebbe tornare più ottimista e allo stesso tempo soddisfare i “sociali” della Casa come già lo fece nel 2001. Non so quale influenza possa avere questa puntualizzazione tecnica, ma sono sicuro che faccia bene al clima del condominio, dopo le bordate polemiche che tutti ci siamo scambiati, ricordarci l’un l’altro quanto sia difficile riformare e quanta intelligenza e saggezza finora abbiamo messo nel tentare di farlo. Possiamo ritentare.

(c) 2004 Carlo Pelanda
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