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Carlo A. Pelanda
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Carlo Pelanda: 2003-9-1il Giornale

2003-9-1

1/9/2003

La questione irakena sarà più gestibile se risolviamo quella francese

La cosa più preoccupante dello scenario irakeno non è il rischio che la situazione vada fuori controllo, ma la strumentalizzazione delle difficoltà di stabilizzazione di quel teatro sia da parte di chi spera in un fallimento degli Usa per ottenere un vantaggio internazionale (Francia in primis) sia da quelli che ne vedono l’utilità sul piano della politica interna. I secondi sono tanti: la sinistra americana a lancia in resta nell’avvio della campagna per le presidenziali (autunno 2004); in generale, tutti quelli che vogliono abbattere la straordinaria unità di intenti dell’Occidente instaurata dall’accordo tra Bush, Berlusconi, Blair ed Aznar. Che è stato il motore politico della liberazione dell’Irak (coalizione della volontà) e che continua ad essere il fattore di propulsione principale per la riuscita del progetto di costruzione di una nazione moderna e democratica nel centro geopolitico dell’area araba-islamica.  E’ evidente che più ci saranno problemi di realizzazione e più gli oppositori interni di questi leader avranno un argomento per tentare di indebolirli. Infatti la stampa collegata alla sinistra americana ed europea sta producendo visioni catastrofiche, del tutto irrealistiche, finalizzate ad influenzare le opinioni interne affinché il progetto imploda: andarsene via, mollare tutto, lasciare che l’Onu (chi poi?) se ne occupi. La mia prima considerazione è morale: è indegno, irresponsabile, mettere a rischio la pacificazione dell’Irak, da cui dipende buona parte di quella in tutto il Medio-oriente, per interessi strumentali di politica interna. E’ persino peggio in termini di “imbecillità morale” – e qui punto il dito contro Chirac – perseguire il sabotaggio dello sforzo americano ed alleato di pacificazione per fini di potenza nazionale. E ciò apre una considerazione politica, essendo una questione interna alla Ue, su quello che dovremo fare noi italiani, impegnati con un sostanzioso contingente militare nella coalizione di ricostruzione e pacificazione.

Ma prima lasciatemi sintetizzare un’analisi, che penso realistica ed equilibrata, della situazione irakena. C’è indubbiamente un problema di frizione militare residua che deve essere ancora risolto. Su tre fronti: guerriglia residua sannita-saddamita; infiltrazione in Irak di terroristi “Jihadisti” da tutto il mondo arabo per sabotare la presenza americana; conflitto di potere all’interno dell’area sciita (60% della popolazione). Molta stampa sostiene che gli alleati abbiano sottostimato questi problemi. Non è vero. Sono stati scenarizzati, compresi casi peggiori di quelli in corso. La realtà è che non è facile risolverli in poco tempo. Non ci vogliono necessariamente più truppe, sul piano tecnico, ma più informazione per impiegarle efficacemente. E questa può venire solo dal formarsi di una forza di sicurezza irakena. E’ in costruzione, funzionerà, ma ci vogliono ancora mesi. In sintesi, la situazione non rischia di andare fuori controllo perché l’apparato di ordinamento dispiegato – compresi i nostri carabinieri la cui qualità tutti ci invidiano -  è sufficiente e funziona piuttosto bene. Quello che invece è stato sottostimato riguarda il costo complessivo dell’operazione di ricostruzione dell’Irak. Dove il punto, più che la cifra assoluta, è che lo stanno pagando quasi tutto gli americani. Il 90% di quello militare (quattro miliardi di dollari al mese) ed il 95 di quello economico. Il secondo ancora non precisato, ma nell’ordine di decine di miliardi di dollari annui. Da una parte l’Amministrazione Bush è pronta a sostenere lo sforzo e non mollerà mai. Dall’altra il prezzo è talmente elevato da creare problemi di dissenso interno negli Stati Uniti. Che, appunto, la sinistra americana sta cavalcando come tema di campagna elettorale per far fallire Bush: non dargli le risorse di bilancio. Per questo rischio, amplificato da una situazione non buona dei conti pubblici statunitensi, Washington sta chiedendo aiuto ad altri Paesi per condividere i costi militari ed economici. E qui entra in campo l’Onu in quanto ogni nazione disposta a farlo (quasi trenta) ha bisogno  della sua bandiera legittimante per vincere l’opposizione interna. E ineluttabilmente qui si infila Chirac: “l’America deve fare un passo indietro”. Indicando con questo che metterà il veto a risoluzioni finalizzate a legittimare una più ampia coalizione di ricostruzione e pacificazione. Non è un problema insuperabile: se l’Onu diviene uno strumento di sabotaggio lo si salta. Infatti molti Paesi interverranno anche senza l’Onu. Ma perché aumentare i rischi di insuccesso per l’interesse di bottega francese? E qui dovremo entrare in campo noi. Lo ha già fatto Berlusconi - ammirevole -  convincendo Putin ad essere cooperativo in sede di Consiglio di sicurezza dell’Onu e quindi a isolare, o per lo meno moderare, Chirac. Ma la parte “dura” del problema va posta in sede di Unione europea: dobbiamo tenerci un traditore in casa – se le cose peggiorano in Irak potrebbero morire i i nostri soldati -  senza far nulla per regolarlo? Può la Francia essere così divergente dalle posizioni espresse dalla maggioranza dei Paesi dell’Unione – la Germania ha ridotto di molto il suo antiamericanismo consapevole del rischio di imbecillità morale – e restare protagonista nell’Unione stessa? Per intanto, qui, un sonoro “no”. Fate coro, vi prego, per aprire in questi termini  la questione francese in Europa, risolvendo la quale sarà meno difficile dare agli irakeni quello che abbiamo loro promesso.

(c) 2003 Carlo Pelanda
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